Oedipus Test

Il teatro oltre-contemporaneo di Robert Wilson

di Luigi Furno

“Oh Edipo, non t’avessi conosciuto mai!”. Ripetutamente, come una litania dapprima ipnotica e via via sempre più crudele. Un uomo di schiena cammina lentissimamente verso una luce sul fondo. Mima il gesto di strapparsi gli occhi. Occhi strappati verso la luce. Ingerenza del buio nel percorso della luce. 

Ma, la prima cosa che si sente, invece, una piccola eco interrotta dalla accortezza del non farsi sentire troppo, è che il testo è stato solo un pre/testo. Una comunissima piccola boutade con cui si destina il personalissimo incompreso per appenderlo al comodo gancio dell’indifferenza generalizzata. Nel foyer del Teatro Mercadante di Napoli, a fine spettacolo, questa piccola eco riempie lo spazio svuotando di senso lo spazio scenico dove da poco era andato in scena l’Oedipus di Robert Wilson. Per molti spettatori la lacerazione in piccoli atolli del testo sofocliano da parte del regista americano è segno di una prova d’artista che sperimenta la propria estetica ma insensibile al materiale con cui la forgia. Appunto: “il testo è solo un pre/testo”. 

Ad una più attenta riflessione sullo genesi dello spettacolo, però, la litania para-avanguardista del pre/testo sembra non reggere. Non reggere, sia chiaro, sul piano prettamente semantico ed ermeneutico che, in fin dei conti, è il campo concettualizzante del fare teatro di Bob Wilson. Sembra avere sorte migliore, invece, un’altra tiritera tipica della retorica del “teatro di ricerca”: il testo è un ri/testo. Ma Robert Wilson, un genio non a caso del teatro contemporaneo, sfugge la facile pratica della ri/scrittura del classico in chiave contemporanea. Non cade nella trappola telederivata del ready-made alla bene e meglio, trasponendo la trama di un testo in uno spazio/tempo apparentemente distante dall’originale. Senza ricolocazione spazio-temporale, niente Edipo nella Sicilia anni ’50 in odore di mafia. Ma ancor più, e sarebbe stato facile caderci per una estetica come quella di Wilson, è lontano anni luce dalla commistione trans-mediale dei linguaggi contemporanei che decostruiscono il classico in una sinaptica connessione tra arti. Niente calderone mix-media, quindi, niente, neanche Edipo salterino in ambienti tridimensionali al ritmo sincopato di brusii elettroacustici. 

L’ottica di ri/testualizzazione con cui Robert Wilson sembra guardare l’Edipo di Sofocle è di tipo distorcente, rapsodica, rabdomante, cleptomane. Quello che fa il regista americano è aggiungere un nuovo percorso di analisi operativa sull’idea di testo, un’arborescenza nella genealogia della matrice codificata che ruota intorno al concetto di testo. La sua non è una ritessitura alterata della trama, come si abusa ormai nelle regie contemporanee dell’Opera, ma una nuova testatura, cioè, un ritestare quello che era già stato testato. Un vero e proprio test analitico, chirurgico, di un linguaggio estetico. 

La conferma che Wilson non ri/testualizza ma ri/testa l’Edipo di Sofocle ci è confermata dalla genesi stessa del processo ideativo del suo Oedipus. 



L’adattamento dell’Oedipus Tyrannos di Sofocle è stato commissionato al regista americano da Conversazioni/Ciclo di Spettacoli Classici che si svolge ogni autunno dal 1934 nel Teatro Olimpico di Vicenza e da Pompeii Theatrum Mundi la rassegna estiva dello Stabile – Teatro Nazionale di Napoli giunta alla sua II edizione dove ha debuttato il 5 giugno nel Teatro Grande degli Scavi di Pompei. 

La logica di Bob Wilson, dicevamo, è quella non di ri/scrivere ma quella di ri/testare il già testato ed, infatti, la pièce riprende l'edizione di Orsatto Giustiniani, basata sulle traduzioni italiane di Ettore Romagnoli del 1926 (ecco le moltiplicazioni di test), che inaugurò nel 1585 il celebre Teatro Olimpico di Vicenza architettato da Andrea Palladio, per il quale Vincenzo Scamozzi, dopo la morte del maestro, realizzò le scenografie che tuttora si possono ammirare e che rappresentano le sette vie di Tebe dove la tragedia è ambientata. Deve essere stato un progetto che Wilson deve amare molto tanto da ritestarlo (ancora una volta si moltiplicano i test) visto che vi ha dedicato quattro laboratori negli ultimi due anni: al Teatro Olimpico di Vicenza, al Watermill Center di Long Island, alla Centrale Fies di Dro e al Teatro Mercadante di Napoli. 

Il passaggio ultimo che il regista fa fare al suo percorso creativo, che in parte spiega l’ossessiva pratica dei laboratori (ben quattro) prima di giungere ad una sintesi da presentare in pubblico, è quella di giungere ad concretizzazione parziale della serie di test che, partendo dal dramma di Sofocle. vengono effettuati da Giustiniani, poi da Romagnoli ed in ultimo da Wilson stesso attraverso la complice fantasia di Konrad Kuln per costruire la drammaturgia da affidare agli attori. 

Ma in cosa consiste il testare il già testato di Bob Wilson? 

Il primo test sembra essere quello di uno sguardo optico sulla luce. Il regista sceglie innanzitutto di cercare nell’infinito mare di spunti che il dramma offre un punto di partenza, dice infatti: “Per me il tema centrale è l’oscurità. Egli (Edipo, ndr) si propone di fare luce sull’assassino di Laio per liberare Tebe dalla Pestilenza. Ma sarà capace di sopportare la luce quando questa infine farà luce su di lui? Sarà capace di confrontarsi con il suo passato, con le sue origini? Come il veggente cieco Tiresia sentenzia: fino a che Edipo avrà la vista, lui sarà cieco. Quando inizierà a vedere la verità egli si accecherà. Siamo noi in grado oggi di guardare la verità?” 

Protagonista assoluto dell’Oedipus diventa allora la cecità davanti all’ovvio, il rifiutarsi di vedere ciò che è chiaro a tutti. Di qui, credo, la frase decisiva contenuta nelle note di regia di Wilson: «Per me il tema centrale della storia di Edipo è l’oscurità». Poiché Edipo s’acceca non perché non vuole più vedere (come, assai superficialmente, si continua a scrivere), ma perché vuole vedere oltre il limite dei significati dati, vuole andare, per l’appunto, oltre il limite delle risposte trovate: e in ciò, del resto, sta il senso alto della sua morte misteriosa, che – non a caso – avverrà, con i tempi e i modi di un vero e proprio rituale iniziatico, nel buio insondabile del bosco sacro alle Eumenidi, ossia in una dimensione altra. 

Il secondo test sembra essere quello della tenuta pan-linguistica del testo orale messo in scena. Il regista si serve di cinque lingue (italiano, francese, tedesco, inglese e greco) per diffondere il messaggio millenario e sempiterno dell’opera sofoclea che narra le sventure di Edipo. 

Dalla somma di questi due test ne scaturisce il terzo. Qui il regista americano cerca di isolare l’aporeticità dell’aetheia (verità in greco, ma anche svelamento) astraendone le articolazioni fino ad parossistico meccanismo celibe in cui il linguaggio, qui la moltiplicazioni delle lingue, non è più portatore di luce ma, come nell’enigma della Sfinge (Chi, pur avendo una sola voce, si trasforma in quadrupede, bipede e tripede?), portatore di un abisso. Appunto: Chi, pur avendo una sola voce, si trasforma in quadriglotta, biglotta e triglotta? 

A questo enigma Bob Wilson risponde con la sua estetica, un meccanismo maestoso, studiato fin nel dettaglio e in cui tutti i pezzi sono disposti con un’accuratezza maniacale e affidato, sulla scena, alle parole ferme e prive di rimedio dell’aedo interpretato da Mariano Rigillo. 

Costruito come una scatola cinese messa di fronte a uno specchio, lo spettacolo si divide in cinque parti e un prologo, con la prima che riflette la quinta, la seconda che rispecchia la quarta e la terza come parte centrale. Ad ogni parte corrispondono specifici materiali messi sulla scena: assi di legno, rami secchi, lastre di metallo, rami versi, sedie pieghevoli, grandi fogli di carta catramata. 



In questo manierismo che sfocia nell’ode all’estetica più pura, qualcosa si perde inesorabilmente e quel qualcosa è la storia, la trama. Ma Wilson è consapevole che non si può fare torto maggiore ai poemi classici che raccontarne la trama, che impoverisce irrimediabilmente la ricchezza fantastica del loro procedere agglutinato e illogico, delle loro grandi deviazioni narrative, del prevalere della fantasia sulla razionalità. 

Lo stordimento delle musiche polifoniche, l’incanto delle luci, i moventi dei ballerini, le poche frasi scelte del testo originale, tradotte, ripetute, urlate accecano come un caleidoscopio troppo luminoso perché vi si possa distinguere qualcosa di intero. È, infatti, tutto è a brandelli, tutto è mischiato. 

«In Sofocle», diceva Jean-Pierre Vernant «sovrumano e subumano si riuniscono e si confondono nello stesso personaggio. E poiché questo personaggio è il modello dell’uomo, scompare ogni limite che permetterebbe di definire la vita umana, di fissare senza equivoco il suo statuto. Quando, alla maniera di Edipo, l’uomo vuole condurre fino in fondo l’inchiesta su ciò che è, si scopre enigmatico, senza consistenza né ambito che gli sia proprio, senza appiglio fisso, senza essenza definita, oscillante tra l’uguale a Dio e l’uguale a nulla. La sua vera grandezza consiste proprio in ciò che esprime la sua natura d’enigma: l’interrogazione». 

Ebbene, l’Oedipus di Wilson è proprio questo, una continua, inesausta interrogazione. La conseguenza di questo approccio è che in questo Oedipus si inscena uno strenuo e ininterrotto interscambio fra il buio e la luce, fra il classicismo e il post-moderno, fra la lentezza estenuante e la velocità improvvisa. Non a caso, lo spettacolo ha inizio con un lacerante assolo, irto di spezzature e dissonanze sincopate, che il sax free di Dickie Landry esegue occultato allo sguardo dello spettatore. Questo particolare modo di trattare la presenza in scena rimanda al lavoro svolto da Tadeusz Kantor, che adottò l’emballage quale mezzo volto al fine di nascondere per illuminare: e di qui l’uso degli oggetti di rango inferiore per sottolineare lo splendore del reale, il ricorso ai manichini per cantare l’inimitabile essenza dell’uomo, la scelta di movimenti rigidamente marionettistici per esaltare la straordinaria espressività del quotidiano, la caccia puntigliosa alle pause e ai silenzi per moltiplicare il significato del gesto e del suono. Quindi, non è un caso nemmeno che alle spezzature e alle dissonanze di Landry s’accompagnino le note arcaiche del compositore siriano Kinan Azmeh. 

Si diceva, all’inizio, che il testare non è il ricercare. Nella logica del test si incarna l’operazione chirurgica che non può essere mai sperimentazione. In una operazione chirurgica tutto deve trovarsi al suo posto e, questo posto, deve essere senza tempo, immutabile. Tutto il passato è sempre presente. Il testare di Wilson, in breve, mette in scena non l’Edipo Re di Sofocle, ma l’orizzontalità e la circolarità del Mito: che, per l’appunto, è sempre presente pur risultando assolutamente impraticabile in termini di quotidianità. Schiller scrisse a Goethe il 2 ottobre del 1797: «L’Edipo è, per così dire, solo un’analisi tragica. Tutto è già presente». 

E al riguardo appare semplicemente straordinaria la sequenza in cui i partecipanti alla lentissima processione che si svolge lungo il proscenio voltano di scatto il capo verso Giocasta, ma solo per un attimo, mentre lei è immobile su una sedia. Il tempo sembra rallentare. E inutilmente i partecipanti alla processione tenteranno di rendersi simili a un testimone dell’indicibile, accumulando dietro di sé, lungo il percorso, una folla di sedie uguali alla sua: arriverà, manco a dirlo, un Edipo che le butterà giù. 
Oedipus, per riassumere, si allinea (ed è questo il suo approdo rilevante) con ciò che osserva Giulio Guidorizzi, il maggior esperto italiano del mito greco: l’efficacia del mito, in quanto racconto, «deriva dalla capacità di attivare processi simbolici profondi della psiche umana». 



Mentre le voci, come ha scritto Achille Bonito Oliva, «approfittano dell’ombra per circolare liberamente senza reticenza e senza chiedere udienza o ascolto», l’Oedipus di Wilson si presenta come una grande installazione visiva e musicale, un lavoro corale che vede transitare sul palco perimetrato di luci una serie di personaggi congelati in posture ieratiche o impegnati in movimenti iterativi. Sculture viventi che provano a dialogare con quelle della scenografia che, a sua volta, dialoga simbolicamente col teatro bauhaus di Oskar Schlemmer. 

Anche se Oedipus non ha la durata dei grandi spettacoli storici di Wilson, la dilatazione temporale viene ottenuta attraverso la frizione di differenti ritmi nelle azioni sceniche, il disegno di geometrie luminose, l’inserzione di quadri danzati che cadenzano un tempo altro, tutto interno allo sviluppo formale dell’opera. Formalismo estetico di cui Wilson è il maestro massimo. 

Dive Robert Wilson: “C’è il pane, la carne, il ketchup, la cipolla, il formaggio e ancora il pane. Ingredienti che messi assieme acquistano forza. Il teatro per me è mettere insieme tanti elementi differenti in una struttura che dà loro più forza. Una struttura molto precisa: ci sarà un prologo, un epilogo e un centro con temi accostati per contrapposizioni perché l’opera attraverserà con oggetti, parole, musiche epoche diverse. Ed è proprio la loro diversità a far acquistare forza e chiarezza all’insieme. Ecco perché dico che sarà un Edipo transculturale e transtorico”. 

Edipo è un discorso intorno all’indicibile e questo indicibile è la natura dell’uomo. Un giorno Maurice Leenhardt, pastore protestante e antropologo in Nuova Caledonia agli inizi del xx secolo, chiese a un gruppo di nativi kanak di descrivere un essere umano. Uno di loro disegnò un fitto insieme di linee che si proiettavano fuori da un centro vuoto, spiegando che si trattavano delle relazioni che ci legano ai parenti paterni, a quelli materni, alle tribù alleate, agli amici. Cancellando le linee, al centro non rimaneva nulla. Questo ci dice Edipo:“Ci dice che vediamo senza vedere e ascoltiamo senza ascoltare. Edipo si acceca per non vedere, ma da cieco comincia a vedere”. E cosa vede? Vede che senza relazione, al centro, non resta niente, che non siamo niente. 

“Oh Edipo, non t’avessi conosciuto mai!”.









Tratto da Oedipus Tyrannos di Sofocle
Ideazione, spazio scenico, disegno luci e regia di Bob Wilson
Interpreti: Mariano Rigillo, Angela Winkler,
Dickie Landry (sax), Michalis Theophanous,
Alexis Fousekis, Meg Harper, Kayije Kagame, Casilda Madrazo
con la partecipazione di Alessandro Anglani,
Marcello di Giacomo, Laila Gozzi,
e con Emanuele D'Errico, Francesca Fedeli,
Annabella Marotta, Gaetano Migliaccio, Dario Rea, Francesco Roccasecca, Beatrice Vento (della Scuola del Teatro Stabile di Napoli-Teatro Nazionale)
Co-regia: Ann Christin Rommen
Musiche originali: Dickie Landry e Kinan Azmeh
Costumista: Carlos Soto
collaboratore scenografo è Annick Lavallée – Benny
collaboratore al disegno luci è Solomon Weisbard
la drammaturgia è di Konrad Kuhn
Traduzione originale in versi di Ettore Romagnoli (1926) e Orsatto Giustiniano (1585)
Un progetto di Change Performing Arts commissionato e coprodotto da Conversazioni | Teatro Olimpico Vicenza, Teatro Stabile di Napoli–Teatro Nazionale



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