TRASLATION MAP/MAPPA DI TRASFERIMENTO/TRASLAZIONE/LISTENING POST/POST D’ASCOLTO


Riportiamo qui di seguito il primo paragrafo del contributo di .furiaLAB, sul tema del codice algo-semantico del rapporto Musica/Teatro, "TRASLATION MAP/MAPPA DI TRASFERIMENTO /TRASLAZIONE/ LISTENING POST/POST D’ASCOLTO", pubblicato sulla rivista d.a.t. [divulgazioneaudiotestuale].

d.a.t. è uno spazio in cui si può avanzare senza timore qualche riflessione sullo stato della musica d’arte - intesa come quella musica motivata da un pensiero, oltre che da un’azione. Un’esperienza a-gerarchica per comunicare del suono oltre il suono. 


di Luigi Furno

Codice Musicale 

Forse aveva ragione Robert Graves, fascinosamente affermando la storica(?) verità d’una Medea commissionata (15 talenti d’argento il prezzo, che tanto ricordano l’esborso d’altro e più famoso tradimento) al Maestro Euripide dalla città di Corinto, per far ricadere la colpa dell’omicidio dei figli di Giasone e dei misfatti di Re Creonte sulla strega straniera. 

Mai macchina mediatica è stata tanto infangante e così efficace, mai menzogna detta altrettanto bene, tanto che già ai tempi di Seneca – primo di tanti a rimuginare sulla tragedia – il nome aveva traslato di senso diventato comune sostantivo ad indicar la madre che trucida i figli, distogliendo così – arma perfetta di distrazione di massa, “delitto perfetto” direbbe Baudrillard – l’attenzione dalla verità. In mancanza d’Euripide, questa oscena miscela di razzismo e sessismo violento, avrebbe diversamente dipinto l’alba della civiltà greca: tuttavia, proprio perché mette in luce, per chi le sa vedere e leggere, le perenni contraddizioni del potere, Medea acquista l’eternità, ch’è sempreverde contemporaneità. Ecco, non dissimile è il percorso della Musica nel Teatro di prosa. 


Un percorso atopico che, pur negli sforzi di rendersi adeguata, sfugge una collocazione permanente nello spazio della teatralità. Soverchiante di senso dato da un linguaggio codificato forte, reso impermeabile da qualsiasi incursione esterna, la Musica nel Teatro di prosa si ritrova nella paradossale situazione aporetica di apolide in una terra senza spazio in quanto atopica. 

La posizione della Musica a Teatro, per spiegare il senso di inadeguatezza, è quella della vittima. La vittima è l’eroe del nostro tempo. La Musica lo sa. «Essere vittime dà prestigio, impone ascolto, promette e promuove riconoscimento, attiva un potente generatore di identità, diritto, autostima. Immunizza da ogni critica, garantisce innocenza al di là di ogni ragionevole dubbio. Come potrebbe la vittima essere colpevole, e anzi responsabile di qualcosa? Non ha fatto, le è stato fatto. 

Non agisce, patisce. Nella vittima si articolano mancanza e rivendicazione, debolezza e pretesa, desiderio di avere e desiderio di essere. Non siamo ciò che facciamo, ma ciò che abbiamo subito, ciò che possiamo perdere, ciò che ci hanno tolto». La Musica è vittima del “delitto perfetto”, quello in cui non c’è mandante né esecutore ma solo vittime.


Nello spazio ermeneutico del linguaggio codificato della Musica non c’è spazio per l’hýbris e quindi non c’è spazio per un colpevole. Il teatro di prosa, non contano gli stili, non è in grado di battere la lingua sul tamburo scansionando il tempo e dividendolo in porzioni precisissime e ripetibili. Per il Teatro il tempo non è reversibile, il tempo può essere solo giocato/Play e mai rigiocato/RePlay. 

Chiunque ne abbia saggiato, anche solo la marginalità filodrammatica, si è accorto che il Teatro non è in grado di seguire il tempo ritmato, non è, cioè, in grado di tagliare i legami sinaptici con la temporalità della vita fuori dal linguaggio codificato. La questione è molto semplice: il Teatro non ha un linguaggio codificato a differenza, invece, della Musica che ha una sua notazione che la rende autonoma dalle aritmie esterne. 

La Musica, riflettendoci un attimo, può essere una metafora di Mary Shelley. Un Frankenstein che prende gusto all’elettricità che gli scorre nelle membra a tal punto da volerne essere autonomo. Automa, appunto, è la sorta di ogni linguaggio codificato sia esso musicale, sia esso informatico, sia esso desossiribonucleico. Non c’è sta stupirsi, d’altronde, se la Musica converge verso l’inumano dell’informatica applicata alle macchine elettroniche. 

La Musica da tempo ne ha piena le scatole dell’umoralità umana. La notazione musicale, in quanto linguaggio codificato ad altissima artificialità e mira ad una macchina che la possa tradurre senza i limiti, gli errori, e le variabilità dell’esecuzione umana. Le prove, a differenza del Teatro di prosa, sono un’inutile perdita di tempo. Tempo sprecato da uomini che hanno difficolta a leggere ed accordarsi tra loro. Le macchine leggono ed eseguono rapidamente un comando codificato, sono inevitabilmente più adatte all’artificialità. 

In senso molto pratico: se vogliamo ascoltare un’esecuzione musicale perfetta dobbiamo rifarci ad un supporto registrato mentre, invece, il Teatro ripreso da una videocamera è abominevole. Vediamola da questo punto di vista: mentre l’autonomia della notazione musicale (codificazione linguistica) continua ad espandersi, sta diventando sempre più difficile per gli umani ottenere informazioni in maniera efficiente dagli spartiti. 

Questo non ha niente a che fare con il volume di informazioni che sono presenti, o persino chi vi ha accesso; è un tipo di funzione di motore di ricerca a trovarsi nel pieno di una crisi di significato. La metafora regge: la musica invoca la misura successiva, il suono conduce al pensiero ma il pensiero è ormai fuori sincro, indietro, avanti, in ogni modo fuori da lì. Repeat. Lo scenario: interno volge in esterno, volge in involuzione. Il loop della percezione è una implacabile sala degli specchi della mente. Il linguaggio codificato non ha bisogno di essersi così poco precisi, ha bisogno di un campionatore. 

Potete pensare al campionamento come ad una storia che vi state raccontando; del mondo così come lo ascoltate, e il teatro dei suoni che invocate con tali frammenti è un unico racconto composto da molti. Pensateci come ad un atto di memoria che muove da parola a parola come un remix: complesso volge in multiplo che volge in omniplesso.


Nel libro scritto dal fisico David Bohm a tale proposito, Tought as a System, l’idea di progresso è descritta come convergenza di questi “suggerimenti visivi” che mettono insieme occhio e mano nel momento in cui pensiamo. Gli approcci multivalenti e multiculturali al linguaggio, e tutte le svariate alternative che circolano proprio adesso, rendono questa materia molto interessante. O pensate ad Antonin Artaud, che nel 1938 inventò il termine “realtà virtuale” nel suo Il teatro e il suo doppio al principio della sezione intitolata Il teatro e la crudeltà. In un’epoca in cui alcuni cercavano il teatro e un’altri cercava il codice della cultura dell’informazione, Artaud si domanda ‘in che modo la vita è divenuta teatro totale?’ Tutto dipende da come si ascolta il suono della scienza: «la mimesi è il metodo del modo». 

La domanda di Artaud grava tutt’ora su di noi nel Ventunesimo secolo come qualche sudario composto di frequenze invisibili, un memoriale per un’era defunta. Ad essere defunto, in un mondo codificato e reso Codice operativo, è l’operazione di ancoraggio al biologico, alle sue flatulenze. Il Codice ha bisogno di essere lasciato solo ad operare. Altra permutazione, altra escursione in modalità file-flip: nel saggio del 1938 On the Fetish_character in Music and the Regression of Listening, il teorico Theodor W. Adorno lamentò il fatto che, come molte altre arti basate sulla performance, la musica classica europea stava diventando sempre di più un’esperienza registrata. 

Aveva già scritto un saggio chiamato The Opera and the Long Playing Record un paio di anni prima, e il saggio Fetish era la prosecuzione sullo stesso tema. Le persone erano esposte alla musica ma a mala pena avevano il tempo di ricordarla perché l’enorme quantità delle registrazioni e il piccolo lasso di tempo per assorbirle si presentava all’ascoltatore protomodernista come una sorta di mentalità da imbeccata. Scrisse: «I nuovi ascoltatori somigliano alle macchine che son al contempo specializzate e capaci di applicare le loro abilità speciali a luoghi insoliti al di fuori del loro artigianato. Ma questa despecializzazione pare solo aiutarli al di fuori dal sistema». 

Quando Tim Bernes Lee scrisse parte del codice sorgente originale del World Wide Web, si trattava di poco più di un club di professori, un luogo che comportava svariate attività emozionanti come fornire dossier sulla ricerca di particelle atomiche presso il CERN in Svizzera, o negoziare sugli ultimi sviluppi del segnale di commutazione a pacchetto con i coordinatori del progetto DARPA, o mettere in campo gli ultimi sviluppi nella riduzione del segnale di disturbo ai Bell Labs, ma questo richiamò alla mente lo stesso senso di aberrazione menzionato da Adorno. [continua...]


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