Tragificare tutto per non dimenticare Guido Ceronetti. Leggetelo





Tragificare tutto, una tentazione da respingere. Se non si hanno smanie di salvare l’uomo, ma il buon senso di salvare il tragico, il tragificabile si riduce molto: uno scoglio nell’Oceano del Dolore. Tuttavia, se non ti senti pensato dal tragico, quale bussola hai nella vita?

Un tragico tascabile è più complicato e più esteso, ma non inferiore al mito dionisiaco o a Shakespeare. Zampilla incessantemente dalle cronache, dalle malinconie, dai connubi, dalle storie rivelatrici, tutte coi loro Dei, lungo tutto quel che, senza ne abbia merito la Necessità che le genera, veneriamo abbagliati come la Storia. In settant’anni di giornalismo, il tragico tascabile mi ha visitato almeno un migliaio di volte. Mi ha fatto segno come la vocazione di Samuele dopo più volte che non udivo la Voce, in una immagine pubblicitaria: quella della Voce del Padrone. Mostrandola ai bambini gli fai muovere i primi passi nella conoscenza del tragico: più tardi le tre teste celtiche di Macbeth e le silenziose Eumenidi gli verranno incontro.

Se un genio assume un evento dallo scrosciare strapotente della vita sociale e lo inserisce nella Lanterna Magica della propria capacità di sentire tragicamente, l’evento specifico prenderà nella sua proiezione d’anima la figura esemplare di Woyzeck, e l’abisso visionario di Raskol’nikov, di Svidrigajlov lungo la Neva. Sarà il volto del Mörder di Fritz Lang, il Vampiro o la giovane martire di Dies Irae di Dreyer. Oh, mai finiresti! Nello sforzo di separare e mettere in luce l’oro filosofale che il tragico nasconde, traendolo dal pelago smisurato dei fatti dolorosi, luttuosi e virtuosi della cronaca e delle epoche, io sto consumando gli avanzi di questa mia lunga, affaticata vita.

Il Tragico non esaurisce l’Essere, non esaurisce i lutti e i dolori che ci avviluppano, ma ne fa toccare, ai culmini della parola, la smisuratezza e l’incommensurabilità. Il tragico tascabile morde, trangugia, istoria, chiarisce, interpreta il Divenire. Un vero approfondimento su carta di giornale non descrive il Vero, perché il vero Vero è già, a sufficienza, impudicamente Mito: e là, nei suoi cavi d’albero, vocatus atque non vocatus, un Dio è presente. Questo pensiero potrebbe giustificare un mestiere ingrato, a volte imperdonabile, come il giornalismo, sia di fotogramma istantaneo che di comunicazione del veduto dai luoghi infuocati dell’evento, in cui Piovene in Spagna, Montanelli a Budapest, Ripellino a Praga, Parise in Vietnam furono grandi. Mancava, sulla piazza macellaia, un occhio di grande reporter, per raccontare la sanguinosa favola di Luigi XVI sul patibolo – rito sacro altissimo compiuto da bestie inconsce – il 21 gennaio del 1793. E lo sterminio della famiglia imperiale compiuto dalla Ceka in Casa Ipat’ev nel 1918, è vero Tragico? L’eccesso, qui, di bestialità bruta degli esecutori e l’ignominia dei mandanti mi fanno esitare; mi vergogno a nobilitarli trasportandoli in un’aura tragica. Sangue versato e stragi, patrimonio comune agli uomini e alle bestie selvatiche, fanno paura, semplicemente: annunciano séguiti di orrori, senza che ne emerga Tragico. Tutti scrivono e dicono «Che tragedia! Che tragica giornata!», ma è un luogo comune e un parlare a vuoto. L’autoritratto di Leonardo o quelli di Rembrandt e di Van Gogh grondano tragico senza stillare sangue. Invece il tragico destinale incorona le tempie di Lev Davidovic Trockij, un probabile mandante ideologico di Casa Ipat’ev, perché il suo assassinio il 20 agosto 1940 a Città del Messico, fino al bacio estremo al morente di Natalia Sedova, è una catena d’atomi tragici inuguagliata nella storia del Ventesimo, caret quia vate sacro.

Intendo venire l’obiezione: decidi tu che cos’è tragico? Sì, sembrerebbe, ma lavoro nella parola, mamma dell’errore e della filosofia. Oso una teoria che svapora subito, senza pretendere di imporsi a nessuno. È un invito a teatro, quello del Mondo. Dai ditirambi il tragico ha molto viaggiato, perché, dice il suo poeta Seferis: «La Grecia viaggia, sempre viaggia»: e il suo passeggero eterno, a cavalcioni sulla prua, è il Tragico dell’esistenza.



Per riconoscere come Tragico Tascabile certi impressionanti fatti del mio crudele secolo ho esitato a lungo, prima di collocarceli. Così è stato per il crimine dei due ragazzi di Novi Ligure (21 gennaio 2001), episodio cui ho dedicato una delle mie ballate dell’Angelo Ferito, e prima ancora per le scelleratezze dell’Helter Skelter della banda di Charles Manson (9 agosto 1969).

Tra le cronache criminali e giudiziarie d’epoca, dimenticate, ero predestinato a ripescare il caso di Rosa Vercesi (18 agosto 1930), diventato dopo sei e più anni di ricerche un racconto lungo e successivamente un testo tragico teatrale da repertorio; ed ero anche destinato a rievocare il caso, con tutti i crismi di puro tragisch, delle sorelle Christine e Léa Papin (passione incestuosa e raptus omicida che fa due vittime, Le Mans, 1933), analizzato da Lacan, amato dai surrealisti, raccontato nel cinema e drammatizzato mediocremente, depurato di tragico, da Jean Genet (Les Bonnes). Ma via via che un Leviatano antropofago, dal 28 giugno degli Arciduchi, rovescia fiumi di sangue sull’intero pianeta (e centouno anni dopo, la voratura di specie umana continua a dilatarsi, cessandone simultaneamente la comprensibilità), tragificare tutto concettualmente diventa fumo di fumi. Il tragico si tascabilizza fantasticamente, non è più che un arcipelago alla lettera di spicchi, di frantumi visti da un cannocchiale rovesciato. In quanto apice della coscienza umana, mano a mano che ragione-che-immagina e uomo-che-pensa vanno spegnendosi, il tragico non ci soccorre e dignifica se non nelle letture e negli spettacoli, svuotati di allestimenti.

Cancello dal tragico l’episodio di guerra e di attacco all’Occidente che fu le Torri Gemelle di New York (11 settembre 2001), eccetto il violinista incongruo apparso, inviato dal cielo, il giorno dopo tra le rovine. E oggi non sussiste più percezione del reale (dunque del tragico) che nell’indomabilità disperata (direi, questa stessa, tragica) della nostra volontà analizzatrice.

Di una nazione che abbia dato significati all’esistere e al generare su questa povera terra esaurita, come credo l’Italia sia stata, e oggi decaduta o ricaduta in una mortifera totale insignificanza, si può dire che dalla sua banderuola che gira senza pietà – in quanto proprio perché ridotta all’insignificanza – un residuo alchemico di significazione tragica tenue tenue ne esali?

Un culmine di Tragico Tascabile è degno di apparirti dovunque nell’immagine che scattò il fotoreporter della United Press a Trang Bang in Vietnam nel 1972: la bambina Kim Phuc che fugge nuda da un bombardamento urlando brucio brucio brucio, la schiena devastata dal Napalm, innocenza pura sommersa nel vortice del male umano. La K àtarsis ne fu, anni dopo, l’incontro di purgazione, perdono, trasfigurazione tra la vittima adulta e l’autore in lacrime del bombardamento. Ed ecco il miracolo: le Furie di Oreste si afflosciano, i più ghignanti, boscici, demoni dell’universo non possono che arretrare.


da Tragico tascabile, Adelphi 2015



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