Stéphane Mallarmé parla di Eva Futura di Villiers de l’Isle-Adam



Un uomo abituato al sogno viene qui a parlare di un altro, che è morto.

È possibile sapere che cosa sia scrivere? Un’antica, oscura ma gelosa pratica, il cui senso è sepolto nel mistero del cuore.

Chi la compie integralmente, si esclude.

Come nulla sopravvive, e l’io in particolare, al riverbero di una divinità sparpagliata, così il gioco assurdo di scrivere è un arrogarsi, in virtù di un dubbio — la goccia d’inchiostro assimilata alla notte sublime — il dovere di tutto abolire e ricreare con qualche ricordo, per verificare che siamo ben là dove dobbiamo essere (perché, permettetemi di esprimere questo timore, resta un’incertezza); di suscitare uno per uno tutti i nostri orgogli nella loro assolutezza originaria, e guardare. Altrimenti, se scrivere non fosse un’ingiunzione al mondo perché, sulla pallida carta di una così incredibile audacia, conformi la sua ossessione alla complicata cifra di un postulato come alla sua propria legge, credo davvero che non sarebbe allora altro che una frode condotta fino al suicidio.

Il demone letterario che ispirò Villiers de l’Isle-Adam fu cosciente fino a questo punto? Lo fu per improvvise illuminazioni, non volendo forse atterrire, con la subitanea rivelazione delle sue estreme conseguenze, l’uomo sul quale aveva impresso la sua cifra; ma, come testimone di un destino straordinario, io so bene che nessuno, che io abbia avvicinato, presentò mai come lui il carattere dello scrittore autentico, isolato, consapevole soltanto di se stesso, e, tuttavia, ignorandosi, a volte, per tornar poi superbamente a scoprirne il segreto per la sua propria meraviglia.

Nessuno, che io ricordi, come allora questo adolescente, fu, con impulso tanto veemente e soprannaturale, sospinto da un vento d’illusione sprofondato in recessi visibili, piombandoci davanti con quel suo gesto aperto che significava: «Eccomi!»; né conobbe, in quel momento della giovinezza in cui sembra folgorare l’intero destino, e non solo il suo, ma quello possibile dell’Uomo, la scintillazione mentale che segna per sempre il busto col diamante di un ordine solitario, non foss’altro che per uno sguardo abdicato dalla coscienza dei suoi contemporanei. Non so, ma credo, ridestando i ricordi dei primi anni, che veramente il suo arrivo fu straordinario, o che noi eravamo dei pazzi; e mi diverte pensare che forse entrambe le cose sono vere. Agitava anche antichissime, o future, insegne di vittoria, quelle stesse che lasciano cadere dall’oblio delle colonne la loro fiamma smorzata mentre bruciano ancora: giuro che le vedemmo.

Quel che voleva, in realtà, questo sopravvento, io penso seriamente che fosse: regnare. E non ebbe forse l’idea, leggendo nei giornali che un trono, quello di Grecia, era vacante, di farvi immediatamente valere i suoi diritti alle Tuileries, in virtù di ancestrali sovranità: e la risposta fu che provasse, nel caso, a ripassare: un minuto prima ne era già stato disposto. La leggenda, verosimile, non fu mai smentita dall’interessato. Così, questo pretendente a ogni regalità sopravvissuta cominciò con l’eleggere domicilio presso i poeti; e, questa volta, era deciso, con giudiziosa chiaroveggenza, “ad aggiungere al lustro della mia razza la sola gloria veramente nobile del nostro tempo, quella di un grande scrittore”. La divisa è rimasta vera.

Niente potrà offuscare dentro di me e nella memoria di molti altri, oggi dispersi, la visione del suo arrivo. Come una folgore, sì, questo ricordo si accenderà diversamente secondo la memoria di ciascuno dei presenti. Non è vero, François Coppée, Dierx, Heredia, Paul Verlaine, Catulle Mendès?

Un genio! Tale noi lo riconoscemmo.

In quella specie di conclave che, agli inizi di una generazione, riunisce dei giovani allo scopo di conservare almeno un riflesso del sacro fulgore, nell’eventualità che uno di essi possa un giorno svelarsi come l’Eletto: noi lo sentimmo subito presente e provammo tutti lo stesso turbamento.

Lo rivedo.

I suoi avi erano nel gesto di rigettare indietro, quasi nel passato, con un movimento abituale del capo, una vasta capigliatura di un indeciso color cenerino, come se dicesse: «Che ci restino, io saprò farcela lo stesso, benché ora sia più difficile»; e noi non dubitavamo che il pallido azzurro del suo occhio, preso in prestito a cieli diversi da quelli comuni, si sarebbe subito fissato nella prossima impresa filosofica, per noi invagheggiabile.

Egli sorprese tanto più quel gruppo, in mezzo al quale non a caso era approdato come fra suoi simili, in quanto a dei nomi altisonanti (come Rodolfo-il-Bello, signore di Villiers e di Dormans, 1067, il capostipite; Raoul, signore di Villiers-la-Bella nel 1146; Giovanni di Villiers, marito, nel 1324, di Maria de l’Isle, e loro figlio Pietro I, che, spentasi la stirpe dei signori di l’Isle-Adam, è il primo Villiers de l’Isle-Adam; Giovanni di Villiers, loro nipote, maresciallo di Francia, che si fece eroicamente massacrare a Bruges, nel 1437, per il duca di Borgogna; e infine il primo gran Maestro di Malta e ultimo signore di Rodi, il valoroso sconfitto da Solimano e restaurato da Carlo V, Filippo di Villiers de l’Isle-Adam, vanto dei cavalieri di Santa Croce di Gerusalemme), a tanta gloria sonnecchiante nei trattati e negli alberi genealogici, l’ultimo discendente mischiò subito altri nomi, che, per noi, artisti uniti in un limitato tentativo (dirò poi quale), sembravano splendere in un orizzonte lontano, benché appartenessero, in realtà, al nostro mondo: San Bernardo, Kant, il Tommaso della Summa, e, soprattutto, qualcuno che egli definiva il Titano dello Spirito Umano: Hegel; e il singolare lettore sembrava, fra le altre lettere di presentazione, invocare anche la loro, dal momento che, nella sua giovinezza e con venia dell’esistenza moderna, ne aveva compulsato i tomi in ripetuti eremitaggi in monasteri come Solesmes, La Trappe e qualche altro immaginario, perché la solitudine vi fosse completa (perché, una volta entrati nella lotta e nella produzione, non si può imparare altro che a spese della vita). Lesse considerevolmente, una volta per tutte e anche per gli anni a venire, soprattutto quel che aveva attinenza all’eventuale grandezza dell’Uomo, tanto nella storia, nel dubbio che il suo destino si compisse nell’orizzonte della terra, quanto altrove, secondo le promesse della religione: perché era prudente.

Quanto a noi, una velleità differente ci univa: semplicemente quella di raccordare una buona volta in condizioni eccellenti, prima di affidarlo al futuro con la sonorità voluta e definitiva, un vecchio strumento talora falsato, il verso francese; e molti, in quel lavoro, si rivelarono esperti liutai.

All’insegna, oggi un po’ arrugginita e tradizionale, del Parnasse Contemporain, (un vento, venuto da dove?, l’ha distaccata), la vecchia metrica francese — non oso aggiungere: la poesia — subiva in quel momento una crisi meravigliosa, sconosciuta a ogni altra epoca e a ogni altro paese, perché, in tutti i più zelanti rimaneggiamenti di ogni genere, non si era mai pensato a toccare la prosodia. Ma la precauzione parnassiana non resta oziosa: fornisce un punto di riferimento tra il lavoro di rifusione, romantico e tutto di audacia, e la libertà; e stabilisce (prima che la versificazione si dissolva in qualcosa di identico alla tastiera originale della parola) un gioco ufficiale e sottomesso a un ritmo fisso.

Il culto della parola che il prosatore avrebbe sollennizzato più di chiunque altro, (e che, fuori di ogni dottrina, non è che la glorificazione dell’intimità stessa della razza nel suo fiore, il linguaggio) strinse immediatamente un legame fra quel gruppo e lui; non che Villiers sdegnasse lo spiegamento della parola nel verso: conservava, anzi, in fondo a qualche baule con lo stemma di Malta, in mezzo agli ordigni di captazione del mondo moderno, una raccolta di poesie, già visionarie, di cui gli parve però opportuno non far parola a dei cesellatori di smalti e intagliatori di gemme, preferendo stare a osservare furtivamente; atteggiamento che, in un debuttante, denota un forte carattere. Più tardi, concentrò il suo entusiasmo in uno stile lapidario, e ci pagò il benvenuto con dei lieds o canti brevi.

Così egli venne e, per lui, era tutto; ma per noi era la sorpresa stessa — e sempre, per anni, per tutto il tempo che si trascinò il simulacro della sua vita, e per altri anni ancora, fino a questi ultimi, recenti e precari, ogni volta che in casa di uno di noi il campanello della porta d’ingresso destava l’attenzione per una sua qualche purezza di vibrazione, ostinata, fatidica, come di un’ora non iscritta ai quadranti e che volesse tuttavia durare, immancabilmente quest’ossessione del suo arrivo di un tempo si ripeteva per gli amici ormai invecchiati, malgrado la stanchezza presente del visitatore, affranto, a pezzi.


Villiers de l’Isle-Adam appariva.

E sempre portava con sé una festa, e lo sapeva; e, ora, quest’irruzione di un tempo passato, che non aveva mai cessato di essere decantato, diventava forse più bella, più umilmente bella, più dolorosa della sua prima apparizione reale; nonostante che il mistero dal quale un tempo egli era uscito, l’oscura rovina semicrollata su un suolo di fede, vi si fosse ormai raccolta e ammucchiata per sempre, ora avevamo sentore, fra noi, di altri segreti, non meno torbidi né meno inquietanti, che parevano assalire il disperato signore perpetuamente scampato al tormento. Con quale munificenza pagava allora il rifugio che gli si offriva, non appena si era svestito dell’intemperie della strada nel gesto di togliersi un rude soprabito; l’allegria di tornare a essere se stesso, molto curato e quasi elegante nonostante le difficoltà, e di specchiarsi nella certezza che in quella casa, come in molte altre, senza preoccupazione di data, o di giorno, foss’anche il Capodanno, lo stavano aspettando: bisogna averlo ascoltato parlare, come faceva talvolta, per sei ore di seguito! Si sentiva in ritarda, e, per evitare spiegazioni, trovava delle scorciatoie eleganti, dei sobbalzi del pensiero e delle tali impennate, che riusciva a rendere inquietante il luogo che l’aveva accolto cordialmente. A mano a mano che, nel corpo a corpo con le contrarietà, si cancellava, nell’aspetto dell’uomo ormai esausto, qualcuno dei tratti salienti della sua apparizione giovanile, alla quale non volle mai essere inferiore, egli lo centuplicava con un gioco di dolorosi sottintesi, che significavano, per coloro ai quali non restava estranea nemmeno una sola inflessione di quella voce, nemmeno il suo silenzio: “Avevo ragione, un tempo, di produrmi così, nell’iperbole, dovuta certo all’ingrandimento dei vostri occhi, di un re spirituale e che non deve essere: non foss’altro che per darvene l’idea. Fui l’istrione veridico di me stesso, di colui che nessuno può raggiungere dentro di sé, tranne in istanti di folgore che si pagano con la propria vita, come già è avvenuto per me; e voi stessi vedete che ciò di cui sentiste attraverso di me l’impressione era ben reale, dal momento che sto qui ora davanti a voi in piena coscienza, e mi esprimo nello stesso linguaggio che serve, agli altri, a ingannare se stessi, a conversare e a salutare; e, d’ora in poi, voi lo percepirete sensibilmente, come se, da sotto a ciascuna delle mie parole, l’oro desiderato e taciuto a rovescio di ogni umana loquacità, si dissolvesse irradiandosi in una veracità di trombe inestinguibili per la loro eccelsa fanfara.”

Taceva. Grazie, ora, di aver parlato. Noi ti comprendiamo.

Quelle sere il tempo si annullava, mezzenotti gettate con indifferenza nella veglia funebre di un uomo in piedi accanto a se stesso: egli lo aboliva con un gesto, nel graduale dissolversi della sua inesauribile parola, come si cancella qualcosa che non serve più: e, in quest’assenza di rintocchi improvvisamente percepita a degli orologi reali, (tutta la lucidità del suo spirito supremamente limpido raccolta in qualcosa di misterioso, com’era, forse, lo spegnersi, tardivo e allargato fino allo spazio, del timbro annunciatore che aveva fatto esclamare all’ospite: “È Villiers!”, quando, smorzato, si ripeteva per la millesima volta il suo arrivo di un tempo), egli pareva discutere ansiosamente con se stesso un problema enigmatico e estremo, ma chiaro ai suoi occhi. Una questione d’ora, appunto, una questione strana e di grande interesse, che pochi uomini hanno occasione di porsi sulla terra: e, cioè, che forse egli non era venuto alla sua ora, se il contrasto col suo tempo era tanto stridente. Sì! Considerando la Storia, egli era stato puntuale, per nulla intempestivo né reprensibile; perché non è, in alcun modo, contemporaneamente a un’epoca che devono venire, per esaltarne il senso, coloro che il destino condannò a esserne a nudo l’espressione: essi sono proiettati molti secoli al di là, stupefatti, a testimoniare di ciò che, impercettibile all’istante della sua apparizione, vive più tardi magnificamente nel rimpianto, e troverà, nell’esilio del loro spirito nostalgico rivolto verso il passato, la sua visione pura.

Come non avvenuto: che il pensatore si sia consumato all’inseguimento dei suoi pensieri, (magici!) — essi lo perpetuavano! piuttosto alla monotonia che rigurgita la fatica, e alla nausea, per difendere la sua parte di solitudine, d’impiegare le facoltà di un arcangelo contro pugnatori d’ogni giorno, la gente — lui, che aveva pur tratto ingenue soddisfazioni dalla sua muscolatura d’atleta! Che importa, come non avvenuto, le sventure, ormai subite, e che solo può scordare lui, morto, che importa?

Con immaginazioni inaudite (per rivendicare altamente il posto che gli spetta) si compose una sepoltura che vale il sacrificio assoluto: fuori di lei non vi è che il tributo pensoso dei seppellitori, che temono che vi sia empietà a tramutare le angosce in rapida gloria.

Io dico: bisogna che niente di tutto questo perduri, o sarebbe l’irreparabile! salvo per alcuni. Gli ultimi iniziati a tanta miseria per tanta nobiltà, sarete stati voi. Quel che rimane è soltanto una storia di estasi e disinganni, certo così bella che forma da sola un soggetto quasi da scrivere; una storia eccezionale, in fondo alla quale c’è la tomba. — Ma quale tomba — e il porfido massiccio e la chiara giada, e i marmi screziati sotto il passaggio delle nubi, e i nuovi metalli —: è l’opera di Villiers de l’Isle-Adam; come sempre per simili abitazioni, sono quelli di fuori a trarne beneficio, e questi passanti diventano il prolungamento dell’Ombra che ha scelto di abitarvi.

Vorrei, senza violare scritti che portano il segno del disordine casuale che li ha prodotti — far vedere la più perfetta simmetria di anima che mai ci fu, o questa dualità di un sognatore e di un beffatore! Vorrei soltanto rimuovere la semplice impronta del quotidiano, o il sospetto interpolare di macchinazioni editoriali; e per qualche minuto, come restando sulla soglia, mostrare l’architettura solidale, che si ritrova a dispetto delle impalcature, impeccabile nelle sue proporzioni, e che altro non è che l’esteriorità di un concetto o dell’organizzazione geniale. Sì, questo! e in un lampo divoratore di veli e dei fluttuamene fortuiti che si sprigionano nel futuro, vorrei che quest’opera, — a voi che la sapete, la sfogherete! — subito appaia tale, quale in fondo ai secoli di letteratura, deve permanere.

Lasciando da parte le Prime Poesie, per sospenderle come la ghirlanda di un pubere omaggio a Colei, la Musa, — nessun’altra che la nostra propria anima — divinizzata! osservo due cardini imponenti secondo gli ordini segretamente corrispondenti del Sogno e del Riso.

Avete capito che voglio parlare dell’Eva Futura e di Axël.

Libello per eccellenza il primo, che raggiunge quel risultato finora mai ottenuto di portare l’ironia sino a una pagina vertice dove lo spirito vacilla: poiché egli ignora, a meno che non lo trovi piuttosto affascinante o prezioso che abominevole, il motivo, legato alla Donna, che suggerisce, nella sua entità, l’audacia di questo libro… (Un giovane lord moriva del fatto che nella sua amante vi fosse un’imperfezione, qualche volgarità, inosservata dal mondo, ma non da lui… Edison, con un automa da lui fabbricato, di particolare ingegnosità, la sostituisce… leggete, leggiamo, bisogna leggerlo, al più presto) — e per esempio, ignora se Hadaly, quest’artificiale amante, non incanti, non dico di più, ma altrimenti che una soluzione, a livello semplice, della vita; questa rivelazione avviene nel boschetto di un parco, nel momento, quanto eterno!, di un appuntamento.

Così il suo (di lord Ewald) primo palpito di tenerezza, di speranza, d’ineffabile amore, gli era stato strappato, estorto, lo doveva a questo vuoto capolavoro inanimato, dalla cui spaventosa somiglianza era stato ingannato. Il suo cuore ne era confuso, umiliato, fulminato.

Abbracciò con uno sguardo il cielo e la terra e rise: un riso vago, secco, insolente come se rinviasse all’Ignoto l’ingiuria immeritata fatta all’anima sua. Questo sfogo gli rese il pieno dominio di sé.

Allora vide accendersi in fondo al suo intelletto un pensiero improvviso e più sorprendente, di per sé, del fenomeno di poco prima: che cioè, in definitiva, la donna riprodotta da questa misteriosa bambola seduta vicino a lui, non aveva trovato in sé mai nulla per cui fargli provare il dolce e sublime istante di passione che aveva or ora provato.


EVA FUTURA


Mi ero prefisso, — nel mio compito marginale ridotto all’umiltà di una guida verso un edificio, ma capace di dirne le pietre, — di sopprimere ogni lettura diretta, che fosse più di qualche frase aggiunta come un fregio; ma la citazione di cui avete ora udito la bellezza, è così spontaneamente schizzata dal libro che illumina, che non saprei non fare al mio rigore un’infrazione parallela, di fronte all’altro capolavoro, tutto fatto di colloqui, passione, immortalità e soprattutto della rinuncia, — soltanto ieri apparso, postumo, come il testamento del poeta: Axël.

(Quarta parte, scena III; una cripta dove si accumulano le possibilità dell’essere, soffocate nel sonno di un tesoro, moneta, gioielli; e l’incontro tra il giovane pensoso, che esce da astruse discussioni umane, semplici per lui, assillato di vivere, e Sara, funesta evasa dal gelo di un convento.)

AXËL, con voce strana, molto calmo, guardandola.

Sara! ti ringrazio di averti vista. (Attirandola fra le sue braccia.) Sono felice, o mia sposa liliale! o mia amata! mia vergine! mia vita! sono felice che siamo qui, insieme, pieni di giovinezza e di speranza, penetrati da un sentimento veramente immortale, soli, dominatori ignoti, e raggianti di quest’oro misterioso, perduti, in fondo a questo castello, in questa terribile notte.

SARA

Lassù, tutto ci chiama, Axël, mio unico signore, mio amore! La giovinezza, la libertà! La vertigine della nostra potenza! E chissà, grandi cause da difendere… tutti i sogni da realizzare!

............


AXËL, grave e impenetrabile.

Perché realizzarli?… sono così belli!

SARA, un po’ sorpresa, si volta verso di lui e lo guarda.

Mio amato, che vuoi dire?

............


AXËL, freddo, sorridente, scandendo nettamente le parole.

Vivere? No. — La nostra esistenza è colma e il suo calice trabocca! Quale clessidra conterà le ore di questa notte? L’avvenire?… Sara, credi a questa parola: l’abbiamo consumato. Tutte le realtà, domani, che cosa sarebbero, paragonate ai miraggi che abbiamo ora vissuto? Perché spicciolare, sull’esempio dei codardi umani, i nostri fratelli di ieri, questa dracma d’oro che ha il sogno per immagine — obolo dello Stige — e scintilla tra le nostre mani trionfali!

La qualità della nostra speranza ci esclude la terra. Che chiedere, se non pallidi riflessi di tali istanti, a questa misera stella, ove si attarda la nostra malinconia? La Terra, dici? Che ha mai realizzato, questa goccia di limo, la cui Ora sa soltanto mentire in mezzo al cielo? È lei, non vedi, che è divenuta l’Illusione! Riconoscilo, Sara: abbiamo distrutto nei nostri cuori, l’amore per la vita — ed è nella Realtà che siamo diventati le nostre anime! Accettare d’ora in poi di vivere non sarebbe che un sacrilegio verso noi stessi. Vivere? I servi lo faranno per noi.

Chiudo Axël e l’Eva Futura, aperti solo il tempo di porre qualche segnalibro magistrale, sulle gemme che scorrono come chiuse ricchezze d’ironia e di fede; e affido ai vostri momenti eletti questi volumi, di cui l’uno, a vostra scelta, io non so quale, magnifica l’autore che l’ha concepito in qualche attimo culminante del suo talento; dove la congiunzione di due facoltà nemiche attesta un’intelligenza sovrana. Tutto lo scaffale della biblioteca del letterato, che occupano le venti o più pubblicazioni del novellatore, si può rapidamente dividere secondo quest’indicazione, per conservare un linguaggio defunto di lirismo e di satira, in fondo: la poesia stessa; e che fu forse il solo a riunire, nella nostra letteratura, Villiers de l’Isle-Adam.

Les Contes Cruels propriamente detti, tra cui scelgo l’Annonciateur, che forma con Akëdysséril un dittico leggendario (bellezza delle frasi, non mi tentare), poi Les Nouveaux Contes Cruels, e altri, sotto i diversi titoli: Histoires Insolites, L’Amour Suprème, Chez les Passants, costituiscono un centinaio di racconti brevi, appena il tempo di esaurire uno stato d’animo, opulento e rapido — il più miracoloso dei libri d’ore: ma si prolunga quest’alternanza di scherno e investigazioni spirituali, in due alte composizioni: Isis, primo frammento di nove di un’opera filosofica progettata (la visione totale si frantumò, sotto qualche colpo misterioso, in varie pubblicazioni giovanili), ha questa particolarità, di creare il personaggio di Tullia Fabriana.

Con Tribulat Bonhomet tenta il suo ingresso nell’opera lo scherzo, sinistro davanti al demone-borghese, o Moderno, quale lo concepiva facilmente l’umorista — enorme, somigliante in modo che il modello del ritratto subito vi si riconoscesse: pur insinuando nelle viscere del mostro, come quelle palle esplosive dei sicari di oggi, non so quale fremito, atrofizzato o embrionale, d’infinito insaccato, tale da scuoterlo è da distruggerlo.

Il dottore parla:

Ho osservato una cosa bizzarra, e che m’ingombra perché mi è così personale: i miei scherzi hanno sempre fatto impallidire.

Io riempio il salone di uno di quegli scoppi di risa che, ripetuti dagl’echi notturni, facevano un tempo — mi ricordo — urlare i cani al mio passaggio! Da allora, ho dovuto praticarli con moderazione, è vero, perché la mia ilarità terrorizza me stesso. Mi servo, in genere, di quelle fragorose manifestazioni nei momenti di grande pericolo.

È la mia arma, quand’ho paura, benché la mia paura sia contagiosa: è una garanzia contro i ladri e gli assassini quando mi trovo in un luogo appartato. La mia risata metterebbe in fuga, meglio che delle preghiere, perfino i fantasmi, perché io non ho mai potuto contemplare i cieli stellati! — e gli Spiriti di cui invoco la protezione abitano degli astri esangui.

Villiers, per quanto fosse un temperamento drammatico, e che attore convinto della propria commedia! forse ostacolato proprio da questo, praticò la scena a intervalli.

Il suo teatro vero e proprio, — mentre Elen, colorito di oppio o di sfumature analoghe al “terremoto e all’eclissi”, pur con la sua straordinaria qualità scenica, richiede la lettura più esclusivamente Morgana, — esige che la Révolte e l’Evasion siano rappresentati, motivi brevi ma di larga portata; ma foss’anche soltanto composto del Nouveau Monde, già sarebbe bello: sfolgora.

Non so quale presentimento mi visita, nel corso del mio viaggio, che quest’opera considerevole — che l’autore stesso ha montato, in stagione morta e in condizioni vane o disagevoli, la vostra capitale, Signori, che è oggi la seconda dell’arte, anticipa sulle opinioni e ci manda a Parigi le nostre primizie, — la riprenderà un giorno, o, per dir meglio, produrrà un giorno questo capolavoro maestoso, triste, superbo.

Tale, nella sua integrità finalmente restituita, duratura, tutta a somiglianza di un uomo enigmatico la cui presenza costituisce un fatto, l’Opera che evocherà il nome di Villiers de l’Isle-Adam; e l’impressione che lascia dietro di sé, a nient’altro simile, — urto di trionfi, tristezza astratta, riso infinito, o peggio quando tace, e lo slittamento amaro di ombre e di sere, con una sconosciuta gravità e la pace, — rammemora l’enigma dell’orchestra; ora, il mio definitivo parere, eccolo. Sembra che per un ordine dello spirito letterario, e per previdenza, nel preciso momento in cui la musica pare adattarsi meglio di qualsiasi rito a quel che la presenza della folla contiene di latente e per sempre imperscrutabile, sembra, dico, che si sia dimostrato che niente, nell’inarticolato o nell’anonimo di quelle grida, giubilo, orgogli, e tutti gli slanci, niente esiste che non possa rendere con uguale splendore e con in più la nostra coscienza — questa chiarezza — la vecchia e santa elocuzione; o il Verbo, quando è qualcuno a proferirlo.



(Da una conferenza di Stéphane Mallarmé, pronunciata per la prima volta a Bruxelles, VII febbraio 1890, pochi mesi dopo la morte di Villiers de l’Isle-Adam).

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