Noi abitiamo poeticamente? Probabilmente noi abitiamo in un modo completamente impoetico

Abitare lo spazio nel pensiero heideggeriano 

di Ursula Iannone

- piccola premessa - La docente di Storia dell’Architettura, al primo anno di dottorato di Architettura degli Interni del Politecnico di Milano, nel 2005 aveva impostato un percorso di altissimo livello culturale per educare i suoi laureati: recensire libri. Semplicemente recensire libri. Voleva dire studiare per davvero, ovvero presupporre una base di conoscenza molto solida e quindi analizzare criticamente un testo. Nessuna azione irresponsabile era permessa. Ogni recensione passava al giudizio insindacabile della commissione, insindacabile perché i cosiddetti “pareri”, soggettivismi, personalismi, mipiacismi, assieme ai riassuntini, ai sintetismi, alle facilonerie da studentelli, erano seriamente banditi.  Tra le varie opere, mi furono assegnati “L’arte e lo spazio” e «…Poeticamente abita l’uomo…» e «Costruire Abitare Pensare», due interventi contenuti in “Saggi e Discorsi”, di Martin Heidegger, le cui brevità sono inversamente proporzionali all’enormità dei contenuti.
.FuriaLab è ancora legato a questo profondo studio e lo ripropone, vergine nella sua originaria veste immacolata,visitabile qui)


Martin Heidegger scrisse L’arte e lo spazio, (Ed. Il melangolo, Genova 1997) nel 1964, in occasione di una mostra di sculture di Bernard Heiliger, allorquando il filosofo tenne una conferenza, intitolata Raum, Mensch und Sprache, presso la galleria Im Erker diSt. Gallen in Svizzera. La pubblicazione avvenne più tardi, nel 1969, con il titolo Die kunst und der Raum e una tiratura di centocinquanta esemplari accompagnati dalle litografie dell'artista basco Eduardo Chillida.

Il testo non è un saggio, un concerto di domande a cui non necessariamente vengono date delle risposte. Il filosofo tedesco, come premette Gianni Vattimo nell’introduzione alla traduzione italiana, mette in discussione due dei fondamenti della sua teoria: la relazione dell’essere con il tempo e il carattere poetico di tutte le arti.

Innanzitutto, l’essere. Il pensiero di Heidegger appartiene alla cultura esistenzialista, sviluppatasi in Germania intorno agli anni Venti, secondo cui il significato di esistenza viene inteso come modo di essere peculiare dell'uomo, in opposizione ai sistemi filosofici che risolvono l'individuale nell'universale. «La questione che mi preoccupa - afferma il filosofo - non è quella dell’uomo, ma quella dell’essere nel suo insieme e in quanto tale» (M. Heidegger,Ueber den Humanismus, 1946, trad. it.Lettera sull'umanesimo, Adelphi, Milano 1997).

A partire dalla fondamentale domanda «che cos'è l'essere?», tale interrogativo riflette sulla problematicità del senso della vita e sui limiti e le possibilità della libertà individuale. Ma l’essere, comune alle entità più disparate, viene distinto da Heidegger dall’ente, che individua la cosa nella sua dimensione di semplice presenza. In questo senso il filosofo polemizza contro la teoria metafisica, che concepisce l’essere sul modello degli enti, cioè delle cose. L'essere, nella tradizione ontologica, è una presenza che non si mostra, ma che si intende come qualcosa di necessario, e che si dà per scontato che esista. Heidegger, rompendo questo assunto, definisce l’essere come l’esistenza che si mostra nella vita per come viene vissuta e percepita e non più come presenza eterna e immutabile, al di là dell'apparenza diveniente della realtà. L'esistenza degli uomini è dunque un esserci, Dasein, è una vita che si presta alla possibilità e al progetto. È, dunque, l'essere, sottoposto alla temporalità propria degli enti per come si mostrano, ovvero è mutabile, temporale, soggetto al divenire. In questo senso, anche la spazialità sarebbe ricondotta alla temporalità dell’esistenza. Ma, diversamente da quanto espresso nelle precedenti opere, in L’arte e lo spazio Heidegger opera un cambiamento del suo pensiero, descrivendo l’esistenza in termini spaziali e non il contrario: «anzitutto individuando l’accadere della verità come un fare spazio» (p. 8).

Tutto il contenuto di questa ricerca è nella domanda che Heidegger si pone all’inizio del trattato: «Lo spazio può essere?». E la domanda è tale da mettere in crisi il carattere poetico di tutte le arti, poiché è lo spazio, in quanto elemento primario, a emergere e a definire il poetare.


Ebbene, cos’è la verità? E cosa significa fare spazio? Gianni Vattimo, eccellente interprete della filosofia heideggeriana, spiega così il concetto di verità: «La verità, prima di essere la descrizione oggettiva di uno stato di cose, è l’apertura di un orizzonte di una possibile descrizione dello stato di cose. Non è tanto difficile da capire: noi descriviamo uno stato di cose usando degli strumenti, dei termini, dei paradigmi, dei presupposti, […] ma tutto questo insieme precede questa verità, […] e questo insieme difficilmente è oggetto, a sua volta, di una descrizione vera, perché per essere descritta veridicamente avrebbe bisogno di un altro sistema di presupposti, di un’altra apertura e così via. Si comprende benissimo che, procedendo in questo modo, si potrebbe risalire all’infinito. […] Quando noi enunciamo una proposizione vera, presupponiamo un sistema di criteri che a sua volta non enunciamo in una proposizione vera, ma all’interno dei quali in qualche modo siamo - come dice Heidegger – “gettati”, ci “apparteniamo”, “ci siamo”: è il nostro equipaggiamento» (E. Galzenati, “La filosofia e la critica della tecnologia, intervista a Gianni Vattimo”, L'Unità, 19 maggio 1997).

Heidegger si chiede se lo spazio sia univoco, e cioè se gli atri tipi, lo spazio artistico o quello quotidiano, possono essere considerate pre-forme di quello tecnico-fisico, e in che modo sia lo spazio. Per questo quesito, il filosofo, come sempre nelle sue teorie, ricorre al linguaggio, che porta all’essenza delle cose e dà accesso al mondo: lo spazio fa spazio, der Raum raumt, letteralmente «lo spazio spazieggia». Fare spazio, e lasciare spazio, significa qui rendere libero, sfoltire, diradare e ciò comporta un insediarsi e un libero abitare dell’uomo. Dunque fare spazio è libera donazione di luoghi e libera donazione del luogo in cui «Dio si manifesta e da cui gli Dei sono fuggiti» (p. 27). È così che il fare spazio accade e si ricongiunge alla dimensione dell’abitare producendo l’insediarsi e l’abitare dell’uomo. A ragione, Massimo Carbone osserva che «se far spazio è disboscare, dissodare, trasformare la foresta in radura abbattendo gli alberi per formare il témenos, il recinto sacro agli dei, siamo all’archè dell'architettura, alla sua origine, all'azione fondativa» (“L'arte, ultima risorsa nell'era della tecnoscienza”, Il Manifesto, 26 febbraio 2001).

Lo spazio accorda qualcosa, cioè dispone, prepara alla possibilità di appartenere a qualche luogo, il quale «è una “dimora” di cose e un abitare dell’uomo in mezzo ad esse» (M. Cacciari, Adolf Loos e il suo Angelo, Electa,  Milano 1992, p. 20). E se il luogo è determinato dalle cose che si dispongono nello spazio, allora le stesse cose non solo appartengono al luogo, ma sono i luoghi. Il filosofo pone inoltre l’accento su un altro termine, la contrada, ovvero la libera vastità, e usa tale accezione per spiegare che il luogo è predominato da essa, dalla possibilità di lasciar sorgere, cioè di accogliere le cose. Riferendosi a quest’ultimo carattere dello spazio di Heidegger, Gianni Ottolini aggiunge che «lo spazio originario non è la semplice estensione pluridimensionale della materia né un vuoto, ma è un luogo esistenziale, in cui le cose per vivere, e la vita stessa, possono essere raccolte, traendone il senso» (G. Ottolini, Forma e significato in architettura, Laterza, Roma-Bari 1996, p. 7). E ancora, secondo Giuseppe Raciti, «il luogo non è, nella prospettiva heideggeriana, una semplice porzione di spazio, ma piuttosto l’impronta di un evento destinale» (G. Raciti, Dello spazio, C.u.e.c.m., Catania 1990, p. 38).

La questione dello spazio rimane di grande importanza in Heidegger, e lo stesso Raciti, nel capitolo del suo libro dedicato al filosofo tedesco, tenta di verificare se effettivamente egli riesca compiutamente ed efficacemente a recuperare la spazialità come rapporto con l’essere, lasciata in sospeso in  Essere e Tempo, laddove la determinazione temporale come senso dell’esserci non era sufficiente per poter pensare la temporalità dell’essere in generale.

Bisogna a questo punto chiedersi del legame che unisce arte e spazio, compendio del titolo del libretto. Heidegger nella sua filosofia propone con forza il problema dell’arte come strumento di ricerca della verità: l’arte è ascolto dell’essere e sua manifestazione privilegiata. Come egli afferma, nel concludere la sua conferenza sulla scultura, «più filosofica della scienza e più rigorosa, ossia più vicina all'Essenza della Cosa, è l’arte» (Conferenza tenuta da Heidegger il 3 ottobre 1964 alla galleriaIm Erker di St. Gallen in Svizzera dal titolo Raum, Mensch und Sprache). L’arte, intesa stavolta come scultura, deve essere considerata come in rapporto al luogo e alla contrada. La scultura è un farsi-corpo di luoghi,ovvero apre una contrada e al tempo stesso la custodisce, concedendo una dimora alle cose e un abitare all’uomo. Se il concetto del vuoto trova una spiegazione proprio in base alla proprietà esposta dei luoghi, per cui esso non è una mancanza, come siamo abituati a pensare, bensì un portare allo scoperto, allora nella scultura il vuoto instaura luoghi. Ma lo stesso Heidegger non giunge a una conclusione, attivando il pensiero del lettore a ogni tipo di speculazione: «Le osservazioni che precedono non vanno sicuramente a fondo per indicare con sufficiente chiarezza ciò che è proprio della scultura in quanto modo dell’arte figurativa» (p. 38-39).

Prima di questo libro, come osserva Gianni Vattimo in un intervista rilasciata nel 1996, Heidegger riconosceva solo nella poesia un’originarietà rispetto alle altre arti (cfr. intervista realizzata alla RAI di Milano il 20 giugno 1996). Nel momento in cui il filosofo affronta lo spazio, ponendolo allo stesso livello del tempo, allora esso si può considerare ragionevolmente come un’esperienza ancora più originaria, o parimenti originaria, di quella delle parole. Lo spazio, come sede di accadere dell’essere e della verità, sconvolge la tesi essere-tempo. Sicché anche il poetare diventa una misura,forma eminente del misurare (M. Heidegger, Vortraege und Aufsaetze, (?) 1954, trad. it.Saggi e discorsi, Mursia Editore, Milano 1991, passim). Ma misurare nella poesia vuol dire pensare all’essenza della misura, e la misura che serve per poetare è la divinità. È quanto afferma lo stesso Heidegger in uno dei suoi scritti «…Poeticamente abita l’uomo…», contenuto nel libro Saggi e discorsi del 1950. Il filosofo analizza i versi di una poesia di Friedrich Hölderlin, da lui definito il poeta del poeta, cioè il poeta della poesia. Questo approccio gli permette di lavorare sull’essenza dell’abitare e della poesia, chiarendo che l’uomo non può sottrarsi alla misura della dimensione, e poiché dispone e misura il suo abitare sulla terra, egli è capace di essere: «Il guardare in alto supera la distanza che sta fra noi e il cielo, e rimane tuttavia quaggiù sulla terra. Il guardare in alto misura tutto il “frammezzo” che sta fra cielo e terra. Questa misura […] la chiameremo ora la ‘dimensione’ […] Essa non è originata dal fatto che la terra e il cielo sono volti l'una verso l'altro. […] L'abitare dell'uomo sta in questo misurare-disporre la dimensione guardando verso l'alto […] Il misurare-disporre è la poeticità dell'abitare. Poetare è misurare […] Solo l'uomo muore, e ciò continuamente, fino a che dimora su questa terra, fino a che abita. Ma il suo abitare consiste nella poeticità. Hölderlin vede l'essenza del poetico nella presa-di-misura, mediante la quale si compie la misurazione-disposizione dell'essenza umana […] È  il poetare che, in primissimo luogo, rende l'abitare un abitare» (pp. 130-131-132).

Abitare poeticamente vuol dire, dunque, essere toccato dalla vicinanza dell'essenza delle cose. L’esistenza dell’uomo deve partire dall’essenza dell’abitare e l’essenza dell’abitare deve significare far abitare, costruire.

Vattimo individua nella scelta dei due versi «pieno di merito e tuttavia / poeticamente abita l’uomo su questa terra» l’esistenza dell’arte come di una grazia, nel senso più ampio del termine, cioè come idea del bello e della genialità, ricevuta dall’umanità. In quelpieno di merito e tuttavia egli trova che il filosofo tedesco interpreti l’abitare poeticamente come uno stato, appunto, di grazia, al di là delle utilità e delle attività operate dall’uomo. Il poetare che apre alla verità è dunque qualcosa che l’uomo non costruisce, ma che si riceve, proprio come una grazia, ed è per questo che esso rende l’abitare un abitare (p. 126).

Ma che cos’è l’abitare? Heidegger pone il quesito all’inizio di un’altra delle disquisizioni contenute in Saggi e Discorsi, Costruire, abitare, pensare. Come in una infinita sfida, il filosofo ricorre ancora una volta al linguaggio e le sue rivelazioni sono sorprendenti. Intanto, costruire non è soltanto abitare, o meglio l’uomo non abita in tutte le costruzioni; si pensi ai luoghi di lavoro, a quelli di trasporto o di passaggio: in ognuno di questi casi le costruzioni albergano l’uomo, senza che egli abbia in esse un alloggio. Il costruire quindi non indica propriamente un abitare, nel senso tradizionale del termine, ma piuttosto come si debba pensare l’abitare. Costruire e abitare hanno nel tedesco la medesima radice, che è anche la stessa di essere: «essere uomo significa: essere sulla terra come mortale; e cioè: abitare» (p. 97). Heidegger osserva che, nonostante ci sia tale coincidenza, l’abitare non viene mai pensato come il tratto fondamentale dell’essere umano. Abitare vuol dire anche essere posti nella pace, rimanere nella protezione, aver cura, più approfonditamente ciò vuol dire custodire la Quadratura, ovvero cielo, terra, mortali e divini, nella sua essenza: «I mortali abitano in quanto essi salvano la terra, […] accolgono il cielo, […] attendono i divini, […] conducono la loro essenza propria» (p. 97). Anche il costruire rientra in questo concetto. Gli edifici, cioè il prodotto dell’abitare, originano un luogo nello spazio. Lo spazio, che indica ciò che è sgombrato, liberato, è perciò raccolto da un luogo. Quindi l’essenza del costruire, «in quanto erige luoghi, è un fondare e un disporre spazi» (p. 106)ovvero è il far abitare, inteso proprio come l’aver cura della Quadratura. In altri termini, il luogo dà l’accesso alla Quadratura (salvare la terra, accogliere il cielo, attendere i divini, condurre i mortali) e il costruire permette che ciò avvenga. Quindi, «solo se abbiamo la capacità di abitare, possiamo costruire» (p. 106). In uno straordinario gioco di linguaggio, «costruire e pensare sono sempre indispensabili per l’abitare» (p. 107)ma anche insufficienti l’uno per l’altro se non c’è un ascolto reciproco.

Sicuramente sorprendenti, in quanto provocano l’effetto di riportare il lettore in caduta libera alla realtà, sono le considerazioni finali di questi due saggi. In «…Poeticamente abita l’uomo…», egli chiude domandandosi: «noi abitiamo poeticamente? Probabilmente noi abitiamo in un modo completamente impoetico» (p. 136). E riflettendo sull’essenza dell’abitare, inCostruire, abitare, pensare si chiede con altrettanta disinvoltura: «che ne è dell’abitare nella nostra epoca preoccupante? […] La vera crisi dell’abitare consiste nel fatto che i mortali sono sempre ancora in cerca dell’essenza dell’abitare, che essi devono anzitutto imparare ad abitare» (p. 108).

Saggi e discorsi raccolgono conferenze e seminari del filosofo tedesco, rielaborati e riuniti da lui stesso secondo tre fili conduttori principali: la meditazione sulla scienza e sulla tecnica; le riflessioni sul pensiero e sul suo rapporto con la poesia; l'interpretazione di alcuni fondamentali concetti della filosofia greca. Ma è comune a ciascuno dei temi affrontati l’immediatezza rispetto alla realtà: Heidegger si sforza di prendere in esame argomenti legati alla quotidianità. Sicuramente il linguaggio, per il valore prioritario che assume nella filosofia heideggeriana, non risponde effettivamente a tale proposito, e la comprensione, o l’interpretazione, diventano un’esclusiva di filosofi e specialisti. Ma è indubbio e potente il fascino esercitato da questo turbinio di parole. Osserva ancora Vattimo nella sua introduzione: «[…] la messa in gioco del linguaggio è anche in lui una rottura della sintassi, anzitutto della sintassi logica, delle connessioni canonizzate. La violenza operata da Heidegger sul linguaggio, dalla lettura etimologica di parole o sentenze isolate all’introduzione di nuovi usi terminologici, ha qualcosa di espressionista, del gesto dada, dell’automatismo surrealista» (p. XVI).


Riflessioni acute e straordinariamente attuali fanno di Heidegger uno dei filosofi più letti e più citati negli autorevoli testi di architettura. Il pensiero aperto e dialettico sul concetto di spazio e abitazione, così come la corrispondenza dell’abitare con l’essere, sono un punto di partenza per chiunque voglia scrivere o speculare sul grande tema dell’architettura.

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